PER UN RILANCIO DELLA POLITICA DEL RIUSO:

TEMI E PROBLEMI DELLA RIQUALIFICAZIONE DELLA CITTA’ ESISTENTE [1]

 

Di Bruno Gabrielli

 

 

 

1970-1990: UN TENTATIVO ASSAI APPROSSIMATIVO DI BILANCIO DELLA POLITICA DEL RIUSO

 

Molte cose sono cambiate dal 1970 ad oggi, e tuttavia restano attuali alcune delle principali motivazioni da cui prese le mosse l'ipotesi del riuso edilizio in Italia.

Non è certo semplice fare bilanci, sia di natura qualitativa, sia, anche, di natura quantitativa. In generale e con assai larga approssimazione, si può affermare che, in termini quantitativi, in questi ultimi vent'anni, si è recuperata una notevole parte dello stock residenziale, con un risultato qualitativo che non può in ampia misura esser considerato soddisfacente.

Perché vi sia stata un'attività di recupero così rilevante non è cosa così semplice da spiegare. I Piani Regolatori hanno certamente contribuito a orientare gli investimenti in questo comparto, ma ciò non basta a spiegare un fenomeno di natura certamente strutturale. Avanzerei l'ipotesi che una certa stabilità della popolazione (in numerose aree si tratta di regresso) ha determinato un fenomeno più accentuato di riuso abitativo; la domanda è stata soprattutto promossa da un progressivo frazionamento dei nuclei familiari, e non da masse di immigrati, e questa circostanza può aver influito in modo determinante sui fenomeni di riuso insieme ai fattori che hanno connotato il mercato delle abitazioni in questi anni. Scarsità di aree fabbricabili e, soprattutto, scarsa qualità/appetibilità delle stesse sono fattori che hanno concorso a questo risultato. In più, si aggiunga la nuova richiesta di "centralità" favorita dalle crescenti difficoltà del traffico urbano e, ancora, il forte travaso di posti di lavoro dal secondario al terziario: se questo fenomeno è stato causa di "erosione" del patrimonio abitativo, tuttavia ha fatto crescere l'appetibilità residenziale delle aree centrali.

Non poco hanno poi influito i modelli culturali, per cui la propensione al "vecchio" piuttosto che al "nuovo" ha giocato un ruolo non indifferente, ribaltando il modello anni '60. Certo, ciò che si sta affermando può esser più vero in certe aree piuttosto che in altre; ciò che riguarda i fenomeni del Nord e del Centro Italia, non riguarda i fenomeni che hanno caratterizzato il Sud. Tuttavia, se ciò è vero in generale, più in particolare si potrebbe affermare che le differenze fenomenologiche riguardano determinate aree metropolitane ed urbane, certe città e non altre, certi piccoli e medi centri e non altri. Ciò deriva dalle caratteristiche strutturali socio-economiche delle aree, ma anche dalla specifica qualità e struttura dell'ambiente urbano, dai livelli di accessibilità, dallo stato delle infrastrutture a rete e puntuali. In sostanza, si è recuperato di più là dove vi erano condizioni particolarmente favorevoli al recupero.

In conclusione, numerosi concomitanti fattori hanno determinato un'attività di recupero, in questi ultimi vent'anni, di gran lunga superiore a quella del periodo 1945-1970.

 

 

LA QUALITÀ DEL RECUPERO FRA CONSERVAZIONE ED INNOVAZIONE

 

Non soddisfacente, si diceva è la qualità del recupero.

In primo luogo un dato oggettivo: la breve durata degli interventi di riqualificazione. Un'abitazione "recuperata" rientra, nella media, in tempi assai brevi nel ciclo del degrado.

In secondo luogo (mala relazione di quanto sopra è evidente) si recuperano le abitazioni singole, ma in minor misura le unità edilizie nel loro insieme, sicché gli interventi riguardano raramente l'impiantistica generale, le parti strutturali, le coperture ed i fronti, le parti comuni in genere, il recupero si risolve spesso in un intervento non apparente, inincidente sulla qualità urbana.

In terzo luogo, allorquando l'intervento è di natura "globale" e riguarda perciò l'intero edificio, sembra di poter affermare che in numerosi casi i caratteri dell'edificio risultano annullati, e che l'edificio rinnovato è "altra cosa" rispetto a quello di partenza, di una specie strana e ambigua, una sorta di libera interpretazione del manufatto originario. Questo è chiaramente un tema che riguarda le problematiche della conservazione e che merita una particolare attenzione, in quanto è ancora oggetto di singolari controversie.

All'estensione di campo si è venuta a consolidare dagli inizi degli anni '70 (ANCSA, Bergamo, 1971), "dal Centro Storico alla Città esistente", è corrisposta una parallela estensione di campo "dal restauro al recupero" nelle discipline della conservazione.

Pur in presenza di diversi punti di vista, i cultori del restauro risultano grosso modo concordi nel trasferire senza mediazioni le teorie e le tecniche del restauro architettonico alle operazioni di recupero. La considerazione da cui si parte è che non vi è possibile distinzione nel conferimento dei giudizi di valore fra edificio monumentale ed edificio modesto, fra architettura "maggiore" ed architettura "minore". Questo atteggiamento nasce anche da una precedente concezione (v. Giovannoni ecc.) relativa all'ambiente urbano, riguardante l'affermazione di una irrinunciabile reciprocità di rapporti fra architettura monumentale ed architettura "minore". Se una gerarchia di valori rimane, tuttavia la constatazione di una solidarietà di relazioni spaziali, di immagine, di significato comporta, come conseguenza, la necessità della conservazione dell'ambiente urbano nel suo insieme, e non certo del solo edificio monumentale. Nel momen­to in cui questa tesi viene enunciata, si tratta di constatare con forza le teorie "dell'isolamento del monumento" così funzionali alle pratiche dello "sventramento".

In concreto, l'estensione del campo dal restauro monumentale al recupero dell'edilizia "minore" comporta l'adozione delle stesse tecniche d'intervento, e cioè l'attenzione "scientifica" al trattamento di ogni elemento, il rispetto di ogni reperto il cui valore di "testimonianza" delle tecniche del costruire e del fare viene considerato di "pari dignità" per la conservazione. Avviene così, in molti casi, una sorta di "inversione" dei valori da conservare. Mentre almeno una linea di pensiero nel cam­po del restauro monumentale considera, in rapporto al cambiamento di destinazione d'uso, la possibilità di un intervento "architettonico" cosiddetto di valorizzazione del monumento, ma in sostanza di restituzione non dell'edificio "quale era", ma di un nuovo edificio, reinterpretato e coerentemente risolto come architettura nuova (tanto per esemplificare, Palazzo Rosso a Genova, con l'intervento museale di Franco Albini) nel campo del recupero edilizio analoghi interventi sono considerati vere e proprie manomissioni.

Ciò è giustificato dal fatto che non vi è cambiamento di destinazione d'uso (per cui l'intervento innovativo anche se non maldestro appare immotivato) e che l'intervento architettonico‑innovativo su una struttura "povera" assume più evidenti connotati di mutazione sostanziale rispetto all'origine.

Con altre parole, gli edifici "poveri" hanno equilibri più delicati, e l'intervento corrisponde, nella stragrande maggioranza dei casi, ad una mu­tazione assai più radicale di quella connessa alle destinazioni d'uso: si tratta della mutazione dell'abitazione da "povera" a "ricca"; quella di un qualsivoglia nuovo abitante che pretende ogni confort attuale e che ricicla i valori dell'antico manufatto proponendoli come immagine (intesi come valore "antiquario").

In conclusione, vi è una compatibilità sostanziale fra usi antichi e nuovi, ed ogni intervento di recupero ripercorre un'esperienza ormai nota.

Se si guarda agli aspetti relativi alle tecniche del costruire, altre "incompatibilità" risultano evidenti: murature che appaiono inadeguate, solai che non sono ritenuti affidabili, stato generale delle finiture (dagli intonaci ai pavimenti) che appaiono di assai difficile manutenzione, per non parlare delle prestazioni dei serramenti; e tutto ciò, naturalmente, a prescindere dall'attrezzaggio ex novo di bagni e cucine, di impianti di riscaldamento, elettrico ed idraulico e quant'altro deve concorrere al "confort" medio-standard attuale di una abitazione corrispondente alla domanda di qualsivoglia utente attuale.

Il rigorismo della conservazione della testimonianza materiale storica cozza pertanto contro evidenti incompatibilità, ed il problema, quindi, consiste nell'assumere un diverso atteggiamento sia a livello tecnico, sia a livello culturale. Le tecniche sono - in generale - quelle adottate per la costruzione di edifici nuovi (da quelle impiantistiche a quelle del consolidamento ecc.); se la conoscenza delle tecniche del costruire antico può essere di grande aiuto ed è comunque necessaria, tuttavia non è sufficiente.

Occorrono tecniche nuove, elaborate ad hoc ma tali da far entrare nel mercato materiali e prodotti appositamente creati per il recupero edilizio.

Inoltre, si lamenta la mancanza di materiali per la sostituzione di par­ti, ma non si è ancora pensato di organizzare mercati dei materiali derivanti dalle demolizioni.

A livello culturale si renderebbe necessario contrastare le "mode" del recupero, per giungere ad una maggior consapevolezza dei valori di testimonianze da conservare: ma per questa fondamentale educazione cul­turale contano più che altro gli esempi dimostrativi, e le riviste di ogni genere, da quelle di architettura a quelle di moda, hanno gravi responsabilità in merito.

Concludendo in ordine al tema della conservazione: forse è necessario che i restauratori "puri" si occupino con molta attenzione dei più che complessi problemi del Restauro monumentale, e che lascino il campo del recupero ad una categoria di tecnici che si rende quanto mai urgente creare ex novo con una preparazione tecnica e culturale specifica.

 

 

RECUPERO E RENDITA

 

La tematica della conservazione propone di meditare sulla circostanza che il dibattito sul recupero in Italia si è fortemente accentrato sul recupero edilizio, trascurando in gran parte il recupero urbano. Non che le due cose siano così perfettamente distinguibili, ma tuttavia non vi è dubbio che non si è consolidata una tradizione del progetto del recupero urbano, o della riqualificazione urbana che dir si voglia. Ciò è dovuto, com'è noto, al fatto che l'idea forte degli anni '70 fu quella di far coincidere il "problema della casa" con quello del recupero del patrimonio residenziale storico.

In particolare, fu la valutazione dello "spreco" (edilizio e di suolo) a promuovere la politica del recupero.

Non mi sembra di poter affermare che la questione dello "spreco" sia obsoleta; se la tensione sul problema casa si è allentata, tuttavia l'ipotesi che fu lanciata negli anni '70 di una programmazione del riuso non può essere abbandonata. Le questioni quantitative sono ancora sul tappeto e mi sembra che si sia rafforzata nei fatti, se non nel dibattito, la oppor­tunità/necessità di una politica, dotata di mezzi e strumenti (finanziari, tecnici e normativi), della manutenzione (edilizia ed urbana). Essa assume oggi una dimensione che probabilmente non aveva vent'anni fa; se è vero che una notevole parte del patrimonio è stata oggetto di intervento, occorre mettere a punto una politica della manutenzione mirata ad arrestare il degrado fino a determinare le condizioni per una più che auspicabile cessazione degli interventi di recupero delle abitazioni.

Ciò consentirebbe di concentrare l'attenzione sul recupero urbano, che è ciò che in modo assai più consistente del recupero delle abitazioni promuove la rendita immobiliare (in rapporto al miglioramento dell'ambiente urbano).

La questione è delicata, ma non può essere elusa.

Ogni operazione di recupero trae le sue motivazioni, ha come obiettivo, consegue il risultato, di una rivalutazione immobiliare.

Nel caso, delle aree storiche, è esattamente questo il risultato che la proprietà immobiliare ambisce di conseguire.

Non si può dunque essere d'accordo con chi ritiene che l'affermazione di principio del recupero pubblico contenuta nella Relazione generale del Convegno di Bergamo 1971 sia diventata un ferro-vecchio. Semmai, a giochi avvenuti, dopo vent'anni di edilizia economico-popolare in cui si è riversato un fiume di denaro, si può meditare sugli esiti disastrosi che ogni Amministrazione pubblica si trova oggi a gestire avendo perseverato nel costruire quartieri periferici privi di senso.

L'ipotesi dell'intervento pubblico nel recupero edilizio è stata quindi in larga misura perdente, ma, a cose fatte, non si può certo affermare che fosse errata. Se la scelta politica è stata criticabile, tuttavia è necessario che anche gli addetti ai lavori, come noi, si assumano le loro responsabilità in merito, visto che non sono andati molto oltre le affermazioni di principio, senza addentrarsi nelle difficoltà concrete del frazionamento proprietario, delle pratiche espropriative e di tutto lo strumentario tec­nico necessario per operare.

In ogni caso, ritornando al recupero, si può anche argomentare che in numerose situazioni urbane una rivalutazione immobiliare è auspicabile per arrestare condizioni di degrado che formano "sacche urbane" incivili ed ingovernabili.

Non vi è quindi una "posizione" o "regola" generale da difendere, ma decisioni consapevoli e particolarmente elaborate da prendere caso per caso, situazione per situazione, misurando bene i costi ed i benefici di ognuna di esse, sempre ponendosi dal punto di vista dell'utilità col­lettiva.

 

 

IL RECUPERO URBANO

 

Che cosa si intende per recupero urbano è bene dirlo, a scanso di possibili equivoci.

Esso riguarda tutto ciò che ha a che vedere con la riqualificazione dell'ambiente urbano e pertanto:

 

-        il progetto del nuovo possibile assetto che può assumere un ambito urbano mediante demolizioni, eventuali nuove costruzioni, forma­zione o risistemazione di vie e piazze ecc.;

-        il progetto delle destinazioni d'uso, con particolare attenzione alle dotazioni di servizi ed al riparo pubblico-privato delle residenze;

-        il progetto di nuove pavimentazioni, formazione di aree verdi, illuminazione pubblica, sistemazione di opere d'arte e quant'altro utile per il pubblico godimento e decoro;

-        il ripristino delle facciate, degli atri, delle aperture su strada dei negozi e pubblici servizi, che, pur appartenendo agli edifici, appartiene al tempo stesso alla scena urbana;

-        il progetto della manutenzione urbana con particolare riguardo alla raccolta dei rifiuti solidi;

-        il progetto delle attività economiche in particolare commerciali ed artigianali, di cui occorre favorire o meno l'insediamento;

-        il progetto dei modi di finanziamento, incentivazione e gestione degli interventi pubblici e privati.

 

Con altre parole, il recupero urbano è un'attività primaria di una Pubblica Amministrazione il cui strumento è un vero e proprio piano integrato di riqualificazione urbana.

Alcune indicazioni qui fornite possono destare qualche perplessità: demolire, costruire sono verbi male accetti per molti, e conviene precisarne il significato contestuale.

Demolire. In primo luogo vi è da demolire tutto ciò che può essere giu­dicato in modo inequivoco negativo per generale consenso per la qualità dell'ambiente urbano. Dato che ciò costituisce un obiettivo perseguibile solo in minima parte (nel nostro paese troppo numerose sono le "offese" arrecate alla qualità dell'ambiente urbano), si tratterà comunque di definire priorità e di operare, pertanto, scelte.

Queste ultime dovranno quindi riguardare non solo la pessima quali­tà estetica delle parti da demolire, ma anche i vantaggi in termini di vivi­bilità e di igiene ambientale che si possono trarre da demolizioni opportunamente mirate. Chi ha in mente alcuni Centri Storici Italiani (Genova, Napoli...) ed alcune periferie delle nostre città sa bene che questa non può essere considerata un'idea peregrina. Il problema dei costi della de­molizione pone in essere la questione relativa alla distribuzione degli oneri e dei vantaggi ed anche del sostegno, quando necessario, del contributo pubblico.

Costruire. Questo termine desta addirittura più preoccupazioni del precedente. E pure, vi sono situazioni in cui ricostituire il tessuto urbano è la soluzione più opportuna ed anche quella storicamente più corretta. L'idea di fare di ogni "vuoto" urbano un'area verde non è sempre la migliore; i nostri tessuti storici in numerosi casi non presentano alcuna compatibilità con la presenza di aree verdi casuali, immesse a forza nella com­pagine edificata. Anche il costruire non è una regola, ma solo in casi specifici una opportunità e comunque non ha senso esorcizzare tale pur rara ipotesi, quando sia dimostrabile in modo inequivoco il miglioramento qualitativo che ne può derivare. II problema non è dunque quello di evitare a qualunque costo di costruire in un ambito storico, ma di elaborare le modalità e le regole di una corretta valutazione dei progetti di intervento.

Recupero urbano vuol dunque dire riprogettare la città volendone soprattutto valorizzare l'identità storica. Anche la conservazione è dunque un progetto, che pretende adeguate tecniche ed efficaci strumenti di azione.

Conservare e valorizzare l'identità storica urbana è un progetto complesso per le regole di comportamento che tale attività esige:

 

-        in primo luogo la conoscenza dei processi di stratificazione, modifi­cazione, innovazione che ogni parte di città ha subito nel tempo. Storia materiale e storia umana si combinano in tali processi ed assumono significati più o meno riconoscibili, ma che è necessario pazientemente ricostruire;

-        in secondo luogo l'interpretazione di tali processi, per individuare le  regole o le trasgressioni e farne oggetto di un'analisi critica capace di  definire i connotati del progetto di conservazione/trasformazione;

-        in terzo luogo la formazione del progetto in quanto scelta fra i due  poli conservazione-innovazione, avendo comunque come obiettivo  una precisa idea di identità storica urbana connessa a quella specifi ca situazione locale.

 

 

CONCLUSIONI

 

Appare evidente, da quanto sopra enunciato, che lo strumento di progettazione e controllo dei processi di trasformazione, il Piano Regolatore, non è sufficiente, nelle sue attuali modalità di formazione, a garantire la qualità di tali processi di trasformazione urbana.

Occorre innovare: occorre cioè che lo strumento urbanistico sia tale da garantire in ogni fase il controllo della qualità della trasformazione.

Se numerosi sono i problemi connessi alla fase formativa-progettuale, non meno numerosi sono quelli connessi alla fase attuativo-gestionale.

Insistere sul primo luogo di problemi vuol dire affrontare le tematiche relative alla cultura del progetto, ai modi di valutazione dello stesso, alle forme esplicite di verifica della qualità: tutto questo necessita di una rivoluzione copernicana dei sistemi normativi, il passaggio cioè da normevincolo a norme comportamentali, esigenziali e prestazionali.

Insistere sul secondo gruppo di problemi vuol dire tentare di costruire strumenti di gestione adeguati ai diversi campi di intervento, il che riguarda una cultura dell'amministrazione la cui sola ipotesi è in totale controtendenza con quanto sta di fatto accadendo.

Non si può ragionevolmente pensare al progetto di recupero se non come ad un'ipotesi cui tendere; nella realtà politica ed amministrativa non sembrano esservi le condizioni per un siffatto progetto.

Almeno due ordini di considerazioni definiscono i campi che dovrebbero essere indagati.

La prima considerazione riguarda la natura dell'organo di gestione del progetto urbano. Se resta preminente ed irrinunciabile il ruolo decisionale politico dell'Amministrazione locale, che è esercitato attraverso i suoi organi di governo (la Giunta ed il Consiglio Comunale), tuttavia la gestione non può (e non solo sotto il profilo tecnico) essere svolta dagli uffici tecnici comunali, dati gli organigrammi consueti di ogni Pubblica Amministrazione, qualunque sia la dimensione del Comune. Gli uffici tec­nici svolgono infatti un'attività di valutazione e controllo delle domande private d'intervento pubblico; questi compiti sono così impegnativi da impedire di fatto l'esercizio di funzioni programmatorie che non consistono soltanto nello studio e formazione degli strumenti di piano, ma che riguardano soprattutto, da un lato, l'ascolto della domanda sociale e, dall'altro lato, l'elaborazione di strategie di concertazione dell'azione pubblica e privata per incanalare in modo virtuoso le risorse disponibili.

Un ufficio comunale creato ad hoc per queste funzioni potrebbe costituire una prima risposta al problema gestionale, masi tratterebbe pur sempre di una struttura pubblica soggetta alle logiche ed alle procedure proprie della Pubblica Amministrazione.

Una struttura pubblico-privata risponderebbe meglio alle esigenze di flessibilità, tempestività ed efficienza necessarie per gestire operativamente gli interventi della riqualificazione urbana.

È comunque necessaria un'attività continuativa e mirata, che costituisca un riferimento certo per ogni tipo di utente, capace di raccogliere ed incanalare le risorse disponibili, pubbliche e private.

Se questo è lo schema razionale, tuttavia si renderebbe necessario definirlo in ogni suo aspetto per poterlo almeno sperimentare.

L'altro ordine di considerazioni riguarda un attento esame delle opposte spinte che si verificano in ordine ai processi di cambiamento che caratterizzano il fenomeno urbano: decentramento e rinascita di interesse per le aree centrali sono impulsi che simultaneamente agiscono senza de­terminare scelta, ma causali e spontanei in rapporto ad esigenze sempre più diversificate e sempre meno controllabili.

La sostanziale mancanza di governo dei processi di trasformazione corrisponde cioè ad una carenza interpretativa dei processi stessi.

La riqualificazione della città esistente, come progetto mirato al recupero dell'identità locale urbana, è un'ipotesi forte che necessita di un "governo" altrettanto forte: è di certo un'utopia se il governo dei processi di cambiamento non è neppure sostenuta da una capacità di compren­dere ciò che di fatto sta accadendo.

 



[1] Da Bruno Gabrielli: “Il recupero della città esistente - saggi 1968-1992”, ETASLibri 1993, pp. 290-298