PRE-FATTIBILITA’ DI UN PROGETTO URBANO

LO STUDIO PER VIALE GIUSTINIANO IMPERATORE A ROMA [1]

 

di Domenico Cecchini

 

 

Antefatto (breve)

 

Il quartiere di viale Giustiniano Imperatore è collocato nel quadrante sud della città, in zona semi-centrale, tra due grandi direttrici radiali: via Cristoforo Colombo a est, e via Ostiense, affiancata in questo tratto dalla linea B della metropolitana, a ovest. E’ percorso per tutta la sua lunghezza, in direzione est-ovest, dall’ampio viale Giustiniano Imperatore, che ne costituisce l’asse principale; parallele al viale sono la via Costantino lungo il bordo nord e la via Alessandro Severo, a sud. Nell’incrocio tra il grande viale e la via Ostiense c’è la fermata S. Paolo della metropolitana; oltre la via Ostiense, verso il Tevere, la Basilica di S. Paolo “fuori le mura” e il parco Schuster, piccolo ma gradevolmente restaurato di recente.

 

La situazione del quartiere di viale Giustiniano Imperatore è “eccezionale” e “comune” al tempo stesso.

“Eccezionale” è la condizione di molti suoi edifici, costruiti in fretta e mal fondati cinquanta anni fa sulla valle di un antichissimo piccolo affluente del Tevere. Appena completati i palazzi iniziarono ad inclinarsi, aprirsi, creparsi, e non si sono ancora definitivamente assestati. Sicché, chi cammina nel quartiere, e ancor più chi ci vive o lavora, percepisce ogni giorno una sorta di inclinata precarietà.

“Comune” è l’incompiutezza degli spazi pubblici, la pesantezza degli edifici intensivi di 8-9 piani, la episodicità della realizzazione di servizi – le scuole, la piscina comunale, i giardini, i parcheggi, il mercato e così via – dietro ognuno dei quali c’è stata una passione, una lotta o un conflitto, ma che non riescono, separati, sconnessi e non finiti come sono, a fare città.

Tra Via Costantino e via Alessandro Severo gli edifici di 9 piani –a proprietà frazionata, con alloggi quasi sempre abitati dalle famiglie che li possiedono - furono realizzati, anche con contributi pubblici, tra gli anni ’50 e i primi ’60. La loro qualità è modesta, lo stato di manutenzione in diversi casi, specialmente per le parti comuni e gli spazi esterni, piuttosto scadente. I dissesti e l’inclinazione degli edifici, soprattutto dei quattro grandi attorno ad un’area di proprietà comunale [2] sono molto visibili e ne hanno ridotto il valore di mercato. Sporadici e puntuali interventi di consolidamento, realizzati da qualche condominio, hanno arginato il rischio, non cambiato le cose.

D’altro canto la struttura urbanistica del quartiere ha ancora notevoli risorse: le principali strade, perpendicolari a viale Cristoforo Colombo, sono regolari, larghe e con alberature imponenti. Diversamente che in tante altre parti della città consolidata, il Piano regolatore del 1931, cui risale il disegno delle strade e la decisione di realizzare i palazzoni, qui non ha ammucchiato lotti e isolati, non li ha  addossati troppo gli uni agli altri.

L’accessibilità del quartiere è buona, grazie alla prossimità della fermata S. Paolo della linea metropolitana B e di viale Cristoforo Colombo. La stessa incompletezza dei tessuti - alcuni grandi lotti non sono stati edificati - contribuisce all’aspetto di “non finito” e di precarietà del quartiere, ma rappresenta tuttavia una risorsa di spazi aperti, in diversi casi non gestiti e abbandonati. Gli spazi pubblici, numerosi ma spesso non risolti, soffrono di questo stato di sospensione e precarietà che si respira nelle strade. Il deposito degli autobus ATAC, in una posizione strategica fra il quartiere e la metropolitana, potrebbe essere una risorsa importante, ma il  suo  uso attuale è del tutto incongruo, fonte di opprimenti inquinamenti [3] .

 

Nel Gennaio 2001 l’Amministrazione comunale aveva affidato all’Università di Roma Tre (Dipartimenti di Scienze geologiche e di Scienze dell’ingegneria civile) uno studio sulle problematiche di dissesto urbano e strutturale. In seguito ad un primo rapporto dello studio, nel novembre dello stesso anno, un’Ordinanza del Sindaco ha disposto lo sgombero cautelativo di 50 appartamenti in due corpi scala di uno dei quattro grandi edifici e impegnato i condominii a studiare soluzioni per il consolidamento strutturale. Lo studio dell’Università di Roma Tre, completato alcuni mesi dopo, ha evidenziato una situazione diversificata dei dissesti, essenzialmente attribuiti alla natura alluvionale e molto compressibile dei terreni e alla mancanza di fondazioni idonee ed ha richiesto un più ampio e approfondito monitoraggio degli edifici.

 

Per valutare la possibilità di soluzioni più ampie ed organiche di quelle possibili attraverso l’iniziativa di singoli condominii, ed offrire all’intero quartiere una prospettiva di “riabilitazione qualitativa” non solo delle strutture edilizie private, ma anche degli spazi pubblici, dei servizi e delle attrezzature, l’ Amministrazione comunale ha poi affidato (maggio 2002) al Dipartimento di Architettura e Urbanistica per l’Ingegneria (DAU) dell’Università La Sapienza uno studio di pre-fattibilità per individuare gli elementi primari di un progetto urbano volto a risolvere i problemi di dissesto, a ridefinire le tipologie edilizie e lo spazio urbano dell’ambito, a dotarlo di migliori servizi e di “una più elevata qualità urbana.” [4]

  In particolare allo studio di pre fattibilità si chiedeva:

-     di mettere a confronto azioni di consolidamento strutturale e/o di demolizione e ricostruzione, verificando la possibilità di realizzare tipologie residenziali meno intensive e garantendo - è stato questo un assunto iniziale condiviso da committenza e Università - la possibilità per tutti gli attuali residenti di continuare ad abitare nella stessa zona o in zone limitrofe;

-        di ridefinire e riorganizzazione gli spazi pubblici e aperti in modo da garantire livelli prestazionali migliori di quelli attuali;

-        di studiare la possibilità di riuso del deposito ATAC per servizi pubblici e privati, da integrarsi con quelli già presenti nel quartiere per garantire una migliore offerta complessiva;

-        di definire le modalità di applicazione, in tutte le fasi progettuali e realizzative, dei principi e delle pratiche dell’urbanistica condivisa;

-        di individuare modi e condizioni per la partecipazione di imprese alla realizzazione del progetto urbano.

 

Da subito è apparso evidente che la natura dello studio e le caratteristiche dell’ambito costituivano un’occasione per sottoporre a verifiche tecniche approfondite – pur nel tempo relativamente breve dei sei mesi assegnati allo studio – ipotesi di riabilitazione di intere “parti di città”, e di individuare percorsi metodologici e soluzioni “prototipali” utili allo sviluppo di azioni analoghe anche in altri contesti.

 

Il metodo seguito  

Lo studio di pre fattibilità ha assunto fin dal primo giorno un marcato carattere multi-disciplinare in funzione dell’ampia articolazione dei contenuti specifici.

La pre-fattibilità tecnica (urbanistica ed edilizia) doveva anzitutto definire strategie e tecniche alternative di consolidamento e di demolizione/ricostruzione, e, attraverso il confronto parametrico tra i relativi costi, offrire indicazioni per la costruzione di scenari economici e morfo-tipologici. La costruzione di questi ultimi – gli scenari morfo-tipologici cui è stata dedicata una sezione importante dello studio- è apparsa indispensabile per rispondere ad uno degli interrogativi iniziali, e cioè se, nel caso degli interventi di demolizione e ricostruzione, fosse concretamente possibile realizzare in situ un numero di alloggi almeno pari a quello attuale, (tutti i residenti devono poter “restare nel proprio quartiere”) però con tipi edilizi meno intensivi e più rispondenti alle domande attuali; gli scenari morfo-tipologi sono stati anche di grande aiuto per gestire gli incontri con rappresentanze delle persone direttamente interessate (residenti e proprietari), e per valutare concretamente gli effetti spaziali di scelte alternative in ordine alle altezze, ai tipi edilizi, soprattutto agli spazi aperti, pubblici e privati.

La pre-fattibilità sociale ha posto al centro la valutazione del grado di condivisione degli elementi primari del PU, condotta attraverso incontri e interviste a testimoni privilegiati. Si è occupata anche di ricostruire un profilo socio demografico del quartiere, assai utile per orientare le caratteristiche dimensionali e prestazionali degli alloggi da ricostruire, e di definire indicazioni metodologiche ed operative per attivare percorsi di partecipazione nelle successive fasi di elaborazione e di realizzazione del progetto urbano.

La pre-fattibilità economica ha preso le mosse da alcune ipotesi generali quali: il vincolo di permanenza possibile per tutti gli attuali residenti, e quindi la definizione di un tetto di spesa per le famiglie; l’individuazione dei soggetti decisivi per la trasformazione (famiglie, comune, imprese); la valutazione di massima dei costi dei diversi scenari di intervento. Attraverso l’ausilio di un semplice modello di valutazione econometrica, e in base alla definizione delle variabili economico-finanziarie fondamentali si sono ottenute diverse ipotesi di imputazione di costi e ricavi ai soggetti decisivi per la trasformazione. Strettamente connesse a questa parte dello studio sono state le valutazioni relative alla fattibilità procedurale, che ha approfondito le diverse possibili opzioni relative agli strumenti urbanistici da utilizzare ed alle relative procedure, e le valutazioni relative ai possibili modelli organizzativi cui far ricorso nelle fasi progettuali e realizzative del programma di interventi

  I contenuti delle specifiche “fattibilità” in cui si è articolato lo studio, ed ancor più la natura stessa degli obiettivi del progetto urbano hanno dato luogo ad una elevata interazione tra i gruppi incaricati degli specifici approfondimenti.

Le singole parti dello studio – la pre-fattibilità tecnica (urbanistica ed edilizia), quella sociale, quella economica-organizzativa e procedurale – non sono state svolte in successione, né logica né temporale. Non si è atteso che l’una fosse completata per avviare l’altra: sono state affrontate contemporaneamente, “in parallelo”, garantendo la fluidità dell’interazione tra i gruppi, e la rapidità ed efficacia dei feed-back.

Alcuni esempi sono utili a chiarire questo decisivo aspetto metodologico.

Fin dall’avvio dello studio di pre-fattibilità sociale, nei primi incontri con gli amministratori del Municipio e il Comitato di quartiere, è emersa l’istanza di non ricorrere, negli scenari di demolizione e ricostruzione, all’uso di alloggi di rotazione. L’accoglimento di tale istanza, requisito importante di fattibilità, ha reso necessario abbandonare una prima ipotesi che presupponeva la realizzazione di 300 alloggi di rotazione come fattore significativo per l’equilibrio economico ed operativo dell’intero programma. L’ipotesi degli alloggi di rotazione è stata sostituita con una diversa modulazione temporale delle fasi realizzative e della quota di edilizia aggiuntiva da realizzare, in parte all’interno, in parte all’esterno dell’ambito. La soluzione si è mostrata altrettanto efficace che quella precedente.

Nel corso della fase iniziale della pre fattibilità tecnico-edilizia è stata definita, sulla scorta delle indagini svolte dalla Terza Università, la “geografia dei dissesti” all’interno dell’ambito, e ne è stata elaborata una classificazione ragionata. Ciò ha orientato gli scenari progettuali e le strategie di intervento a localizzare gli interventi di demolizione e ricostruzione prevalentemente in una parte del quartiere (comparto est) e quelli di riabilitazione (consolidamento e impiantistica) prevalentemente in un’altra (comparto ovest). A questo orientamento ha contribuito anche l’analisi delle classi di età della popolazione residente (pre-fattibilità sociale) che ha mostrato una decisa concentrazione nel comparto ovest della popolazione più anziana, presumibilmente più propensa ad affrontare l’intervento in termini di riabilitazione piuttosto che di demolizione e ricostruzione.

Molti altri esempi possono essere fatti. Nell’elaborazione degli scenari economico-finanziari si è assunta l’indicazione emersa nel corso dello studio sociale in ordine ai “tetti di spesa” ammissibili per le famiglie proprietarie. Le interviste svolte nell’ambito della fattibilità sociale hanno posto in luce l’importanza che i residenti – tra i quali alta è la presenza di anziani e di single - attribuiscono agli spazi verdi e aperti, alla domanda di “centralità locale” e di riuso del deposito ATAC: ciò ha fornito indicazioni per gli scenari progettuali, e così via.

  La svolgimento dello studio ha confermato l’ipotesi metodologica iniziale. Passare dall’idea di una elaborazione concepita “in serie” ad una concepita “in parallelo”, dalla staffetta alla linea del rugby, si è mostrato l’unico approccio coerente con il tema.

E’ questo l’approccio metodologico che in realtà ritroviamo ogni volta che affrontiamo le trasformazioni nella città contemporanea secondo i criteri del “progetto urbano” [5] : l’unico sufficientemente duttile e flessibile, ma fermo nelle scelte di fondo, in grado di “ascoltare” la molteplicità delle domande e delle esigenze, ed anche la loro mutevolezza nel tempo. L’unico in grado di “far parlare” la città.

 

    Alcuni risultati

 

Nel suo insieme lo studio di pre fattibilità ha dato esiti positivi. Senza trascurare un ampio ventaglio di possibili alternative, nelle conclusioni esso privilegia uno “scenario di riferimento” che prevede la demolizione e ricostruzione di 949 alloggi (superficie utile lorda tot. = 90.720 mq) e interventi di riabilitazione edilizia per altri 210 alloggi (s.u.l = 22.641 mq). Per 523 alloggi (s.u.l = 58.698 mq) non sono previsti interventi strutturali: i residenti potranno avvantaggiarsi della generale riqualificazione degli spazi aperti e dei servizi nel quartiere e potranno essere presi in considerazione interventi di re-styling.

Le tipologie edilizie adottate, diverse nei diversi scenari tipo-morfologici, permettono di ridurre di due piani le altezze medie degli edifici: in uno scenario la riduzione è addirittura di tre/quattro piani. La scansione temporale degli interventi in tre fasi favorisce trasferimenti diretti delle famiglie dalle vecchie case (che poi saranno demolite) alle nuove. Le valutazioni econometriche mostrano che, al termine del programma il valore immobiliare in proprietà alle famiglie è superiore alla somma di quello degli alloggi attuali e del costo dei lavori di demolizione e ricostruzione. La quota di finanziamento (mutuo) che devono accollarsi le famiglie è inferiore al tetto di spesa indicato nel corso dello studio. Le simulazioni evidenziano bilanci positivi anche dal lato delle imprese e del Comune. Il saldo finale delle aree a standard è positivo rispetto alla situazione attuale.

Questi risultati richiedono la disponibilità di due aree di proprietà comunale interne al quartiere, attualmente non utilizzate  (2,2 ha), e dell’area dell’ex Cinodromo ( circa 5 ha), distante meno di un chilometro dall’ambito, verso l’ansa del Tevere (Valco S. Paolo): sempre secondo lo scenario di riferimento l’edificazione in queste aree [6] è necessaria in parte per ridurre le altezze medie degli edifici mantenendo invariato il numero degli alloggi, in parte per realizzare nuova edilizia necessaria al finanziamento dell’intervento (la s.u.l aggiuntiva rappresenta circa il 20% di quella esistente).

Ora, più che alle positive verifiche di fattibilità, e alle numerose opzioni alternative che aprono, mi sembra più significativo accennare ad alcuni temi emersi nel corso dello studio e che fin d’ora, a prescindere dallo sviluppo successivo delle cose – non sappiamo se l’Amministrazione comunale deciderà di andare avanti o no – mi sembrano significativi, ben oltre la specificità del caso specifico.

  Il primo tema riguarda gli scenari progettuali e la loro capacità di individuare e valorizzare le risorse presenti sul territorio, spesso nascoste, implicite, non percepite come tali. Nello studio si segnala come la costruzione degli scenari progettuali abbia permesso di dare una risposta positiva a tre ordini di esigenze:

i.            verificare la fattibilità fisica degli interventi, soprattutto di quelli di demolizione/ricostruzione e di riassetto degli spazi aperti, permettendo di valutare i possibili risultati in termini spaziali, tipologici e di fasi realizzative;

ii.          offrire all’Amministrazione uno strumento per avviare percorsi di progettazione condivisa, e raccogliere, sulla base di efficaci simulazioni progettuali, le esigenze dei residenti e degli esercenti attività di servizio;

iii.        permettere la redazione di “regole” e “guide” per la qualità della successiva fase di progettazione, incluse le strategie di risparmio energetico.

Se gli scenari progettuali si sono dimostrati una tecnica efficace nelle prime valutazioni di fattibilità del progetto urbano, particolarmente utili si sono rivelati per individuare, apprezzare e utilizzare le risorse fisiche locali, per elaborare soluzioni capaci di valorizzare le potenzialità di spazi, strutture, servizi ora trascurati o abbandonati. Scoprire le possibilità di nuovi usi per un deposito, valutare l’ampiezza di una carreggiata in funzione di usi non solo automobilistici, apprezzare gli effetti negativi di una barriera e quelli positivi della sua eliminazione, ricreare una continuità interrotta o una vista ostruita, introdurre sistemi di risparmio energetico contribuendo anche a ricostruire un rapporto tra abitare la metropoli e componenti ecologiche fondamentali, sono tutte azioni che contribuiscono a ridefinire lo spazio e il paesaggio del quartiere, a ridare qualità alla dimensione locale, a rivitalizzarne l’economia. In realtà, stanti i vincoli progressivamente più stretti della spesa pubblica, è solo valorizzando appieno le proprie risorse implicite, “l’oro delle città”, che possono instaurarsi percorsi virtuosi di sostituzione e qualificazione urbana. Ho l’impressione che non solo nel caso di studio, ma spesso in larghe parti della “città consolidata” i valori accumulati nel tempo recente e poi sommersi, offuscati o contraddetti siano notevoli; che il loro rinvenimento e la loro utilizzazione non necessariamente inducano alla densificazione, e che quando ciò eventualmente avvenga – certamente non  nella “città degli intensivi”, ove l’unica possibilità di azione è la riduzione delle densità fondiarie, e se possibile anche di quelle territoriali - non necessariamente sia un male. E che lo spunto dato, nel caso di studio, dalla necessità di una riabilitazione edilizia strutturale, in altri casi possa essere dato dalla costruzione di una nuova attrezzatura, dall’apertura di una fermata della metropolitana, dalla realizzazione di un parco.

 

Il secondo tema riguarda il modello organizzativo in funzione degli obiettivi da perseguire.

Lo stretto rapporto tra modello e obiettivi del programma è stato tenuto presente durante tutto il corso dello studio ed ha giustamente condizionato la scelta della forma organizzativa. Se si fosse trattato di un tradizionale Piano di Recupero per un quartiere degradato, con interventi prevalentemente di risanamento conservativo o di ristrutturazione edilizia, senza trasferimenti di proprietà, probabilmente la forma organizzativa appropriata e di più semplice adozione sarebbe stata quella del Consorzio fra i proprietari. Al Comune sarebbe stato riservato il coordinamento urbanistico, la predisposizione di eventuali alloggi di rotazione e la gestione delle problematiche sociali (inquilini residenti in affitto, famiglie a reddito particolarmente basso ecc.).

Nel caso di studio si tratta invece di un programma ben più radicale, che esclude l’uso di alloggi di rotazione, comporta trasferimenti di proprietà entro una riconfigurazione urbanistica dell'intero quartiere e include, fra l’altro, il miglioramento degli spazi pubblici, il riuso del grande deposito ATAC, l’uso pluri-funzionale dell’area dell’ex Cinodromo.

Anche in relazione alla fattibilità economico - finanziaria del programma i protagonisti dell'intervento non potranno essere solo i proprietari degli immobili. Occorrerà reperire risorse finanziarie più ampie, allargare il programma oltre la ristrutturazione e ricostruzione in nuove forme delle abitazioni oggi esistenti, garantire unitarietà, condivisione e qualità di progettazione, di realizzazione e di gestione al programma stesso.

Obiettivi e requisiti che escludono l’ipotesi di un mero consorzio tra proprietari e postulano viceversa un modello organizzativo di tipo societario. Non è questa la sede per ripercorrere i motivi in base ai quali, nello studio, presi in considerazione i due modelli tipici della Società mista per Azioni e della STU [7] , pur ritenendoli entrambi praticabili si esprime una preferenza per il secondo.

Più significativo sotto il profilo metodologico mi sembra il fatto che, indipendentemente dal tipo di Società ed evitando di irrigidirne la struttura, nello studio si configuri un modello per così dire “a geometria variabile”, in funzione degli obiettivi propri di ciascuna fase operativa del programma. Così, nella prima fase lo strumento societario dovrà configurarsi come “società di servizi” per produrre una serie di elaborati (da quelli più propriamente urbanistici al Piano economico-finanziario, dal programma specifico delle opere ai documenti di gara per l’individuazione dei partners privati ) e la fornire servizi (dalle diagnosi strutturali di ciascun edificio all’interlocuzione permanente con le rappresentanze dei proprietari e con il gruppo locale di progettazione partecipata) [8] . Nella seconda fase, a valle di decisioni che spetteranno all’Amministrazione comunale centrale e al Municipio, sarà una configurazione più propriamente da Società realizzatrice degli interventi a prevalere.

In proposito mi sembra venga, dallo studio, una salutare lezione: non privilegiare uno strumento o un modello organizzativo in base alle sue caratteristiche interne, alla sua forma istituzionale o ad altri aspetti autoreferenziali, ma tener ben ferma la concretezza degli obiettivi valutando esclusivamente in base all’efficacia del loro perseguimento i diversi modelli organizzativi, e adattarli agli obiettivi.

 

Il terzo tema è quello della partecipazione.

Un programma di riabilitazione urbanistica ed edilizia di un quartiere di questa dimensione - centinaia di famiglie residenti direttamente coinvolte nella partecipazione finanziaria e nel trasferimento ad altra abitazione – e articolazione tematica – non solo abitazioni, ma spazi aperti, attrezzature, servizi pubblici e privati - implica problematiche diverse e più complesse rispetto a un tradizionale intervento di trasformazione urbanistica di un'area non edificata o dismessa. Le famiglie residenti devono essere coinvolte in tutte le fasi del programma. Che si tratti di un percorso obbligato mi sembra evidente: qualche esempio pratico può renderlo ancor più chiaro.

Lo studio presenta soluzioni in termini di quantità e tipi di interventi la cui fattibilità preliminare è sondata attraverso discipline, competenze e verifiche molto diversificate. Tali valutazioni, sufficienti allo stadio di pre-fattibilità, non lo sono più nel momento in cui si passa a fattibilità più spinte e alla concreta realizzazione. Perché le centinaia di famiglie proprietarie degli alloggi da demolire e ricostruire decidano di investire il proprio tempo e danaro in una azione molto conveniente e molto impegnativa – una casa non è mai solo una casa - occorrono ulteriori passi. In particolare occorrono più approfondite elaborazioni di diagnostica strutturale che dettaglino l’analisi dei costi di intervento di ciascun edificio e diano maggiori elementi per la decisione; occorre che le famiglie acquisiscano una più dettagliata conoscenza dei caratteri dell’intervento, dei relativi vantaggi e impegni, fino alla scala del singolo edificio e del loro alloggio. In sintesi: occorre procedere sia dal punto di vista della diagnostica edilizia-strutturale, sia dal punto di vista della progettazione condivisa.

Diagnostica edilizia e progettazione condivisa sono due insiemi di tecniche che mi sembrano ricorrenti in qualsiasi operazione di trasformazione della città esistente, e ancor più in interventi di sostituzione che vogliano riferirsi non solo ai quartieri pubblici (esigua minoranza, soprattutto in Italia) ma al vasto e prevalente mondo della proprietà privata diffusa.

In base alla constatazione che “sono le famiglie residenti e proprietarie la componente essenziale del Programma: sono loro a mettere in gioco le proprie risorse economiche, di tempo e di impegno; sono loro a dover decidere. E’ dunque essenziale che il Programma offra loro gli strumenti più efficaci per poter decidere, ed accompagni il loro non facile percorso per tutto il tempo necessario” lo studio elabora diverse proposte di strumenti e modalità per garantire una operante partecipazione.

Vi è di più. Se si vogliono mobilitare risorse non solo finanziarie, ma anche organizzative e gestionali – e lo studio mostra la necessità di tali apporti – occorre una effettiva mobilitazione di imprese competitive. Le norme relative alle SpA a partecipazione mista e alle STU garantiscono percorsi di selezione trasparenti e “di evidenza pubblica” per l’ingresso di imprese private in società miste. Ma è anche necessario che il “punto di vista dell’impresa”, non la singola impresa, partecipi fin dall’inizio al processo di trasformazione qualitativa, alla sua ideazione. Assai positivamente lo studio ha esplicitamente cercato di dar conto – attraverso incontri con rappresentanze istituzionali imprenditoriali – del punto di vista delle imprese, delle condizioni e modalità della loro possibile partecipazione a un programma di tal fatta.

Quello della partecipazione, come del resto i due precedenti, non è tema che possa esaurirsi in una breve nota. Mi pare però che, anche in questo caso, il contributo dello studio di pre fattibilità stia nell’introdurre nei nostri ragionamenti una buona dose di concretezza. La partecipazione, tema molto presente nella discussione attuale degli urbanisti, mi sembra oscillare tra due estremi. Una concezione fortemente ideologica che ne fa un fine in sé, e in tal modo riduce la città a mera metafora della società. Una concezione sostanzialmente cinica, che la subisce perché obbligata da procedure burocratiche o da pratiche politiche, e in tal modo deprime la domanda di città. In entrambe a farne le spese è la città fisica, quella, appunto, della quale dovrebbero occuparsi gli urbanisti.

 

 



[1] In Urbanistica Informazioni n. 188, aprile 2003, dossier “Permanenza e sostituzione nella riabilitazione urbana”.

[2] Un’area abbandonata e infossata, poco più grande di un ettaro, dove sarebbe dovuta sorgere una nuova sede municipale, che la vox populi ha ribattezzato “la buca”.

[3] Il diffuso lamento di chi abita nei caseggiati vicini è che, ogni mattina assai presto vengono messi in moto, per il riscaldamento, i motori diesel degli autobus, con effetti acustici ed emissioni che si possono immaginare

[4] Lo studio è stato condotto da un ampio gruppo così costituito. Responsabile scientifico: Prof. Arch. Domenico Cecchini. Gruppo operativo: Ing. Andrea Balduini, Arch. Antonella Campofredano, Arch. Renzo Candidi, Ing. Andrea Cuva, Ing. Carlo Di Berardino, coord. inf. Giovanni Di Sotto, Arch. Annalisa Marinelli, Ing. Estella Marino. Scenari progettuali: Prof. Ing. Elio Piroddi (coord.); Ing. Andrea Balduini, Ing. Francesco Bigi, Ing. Antonella Carosi, Prof. Ing. Paolo Cavallai, Prof. Ing. Carlo Cecere, Prof. Ing. Paolo Colarossi, Ing. Giancarlo Curcio, Ing. Andrea Cuva, Arch. Daniela Lippa, Ing. Luca Mezzadri, Ing. Stefano Novello, Ing. Ilaria Scarso, Ing. Alessandro Tomasello, Ing. Ornella Toninello. Verifiche economiche, sociali, procedurali: Prof. Ing. Guido Ancona, Dott. Daniela Antonietti, Dott. Ilaria Appetecchia, Dott. Maria Agata Cappiello, Prof. Ing. Paolo Iacobelli, Prof. Ing. Salvatore Minieri, Arch. Edoardo Preger . Strategie di riabilitazione edilizia: Prof. Ing. Franco Braga (coord.), Ing. Francesca Buttarazzi, Ing. Giuseppe Lomiento, Ing. Nicola Nisticò.

 

[5]   Esperienze e letteratura (ormai vasta) sul progetto urbano mi sembrano ormai convergenti verso questa impostazione. Dopo l’ampio ed aggiornato saggio di N. Portas in Urbanistica 110, 1998, vedi, più recentemente: “Fabriquer la ville: outils et méthodes” DGUHC, A. Masboungi (a cura di) , La Documentation francaise, Paris, 2001, e in particolare il testo di Y. Janvier, “un système de production en mutation”. Nella proposta di nuovo Piano Regolatore per Roma si introduce la “procedura” del progetto urbano come procedura normale e sistematica, attribuendo ampio spazio alle pratiche partecipative.

[6] Mentre le due aree interne al quartiere vengono completamente inserite nel riassetto urbanistico ed edilizio proposto dagli scenari, quella, più ampia, dell’ex Cinodromo potrà anche essere utilizzata parzialmente

[7] Quelli, per intenderci, cui si riferiscono rispettivamente l’art. 116 e l’art. 120 del T.U. per gli Enti Locali.

[8] Al tempo stesso è necessario produrre elaborati e servizi sapendo poi di dover realizzare, e quindi mettendo nel conto anche gestione e durata

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Inquadramento urbano scenario 1A

- in alto: stato di fatto

- in basso: stato di progetto

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Scenario 1A: planivolumetrico, spazi aperti e sezione (in grigio nella planivolumetria edifici e spazi aperti di progetto)

 

 

 

 

Scenario 2A: planivolumetrico e spazi aperti (in grigio chiaro gli edifici, in grigio scuro gli spazi aperti di progetto)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Simulazione dello scenario progettuale 1A. In primo piano la sistemazione degli spazi aperti accanto al deposito ATAC.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Viale Giustiniano Imperatore: stato di fatto

 

 

 

Viale Giustiniano Imperatore: simulazione progettuale dello scenario 1A

SINTESI DELLO STUDIO PER IMMAGINI (per la comunicazione)