PRINCIPALI FASI DELLA TRASFORMAZIONE URBANA
 
 
 
  0 SCHEMA GENERALE
 
  1 FORMAZIONE DELLA CITTA INDUSTRIALE
    XIX secolo
 
  2

FORMAZIONE DELLE
AREE URBANE E METROPOLITANE

    1900-1970
 
  3

CITTA' DIFFUSA,
RIUSO E RIQUALIFICAZIONE

    1970 - OGGI
 
 
 

FORMAZIONE DELLE AREE URBANE E METROPOLITANE
XX secolo fino agli anni '70



SCHEDA - B

  LA TRANSIZIONE NEI PROCESSI DI URBANIZZAZIONE: DALLA SECONDA ALLA TERZA RIVOLUZIONE INDUSTRIALE.

 

 

ASPETTI GENERALI [1]    

 

Con l'applicazione delle nuove tecnologie industriali (in particolare di quelle basate sull'elettronica) e dell'informatica non solo ai processi materiali di produzione, ma anche alle altre funzioni di impresa e alla intera organizzazione dell'impresa come sistema - cioè con quella che è stata definita la terza rivoluzione industriale - e con la diffusione e il miglioramento delle reti di trasporto, energetiche, di telecomunicazione - tende ad annullarsi la corrispondenza tra economie di scala ed economie di agglomerazione degli impianti industriali e vengono meno i motivi che furono storicamente alla base della loro concentrazione prima urbana, poi suburbana. Ormai da tempo è in atto, in tutti i paesi industriali, una riduzione assoluta e relativa della popolazione, e dei posti di lavoro di fabbrica, nelle aree urbane e nelle città maggiori, la cui più che secolare e ininterrotta crescita demografica si arresta, o addirittura si inverte, e si assiste al decentramento ed alla diffusione degli impianti industriali nel territorio e nei centri urbani minori.

Viceversa economie di agglomerazione, connesse ad economie di scala, continuano a sussistere per le attività di direzione e controllo delle grandi organizzazioni industriali, finanziarie, commerciali, scientifiche e amministrative e per le numerose attività di servizio ad esse complementari.

Si tratta di attività caratterizzate da un elevato “input” di informazioni, dalla esigenza di contatti e relazioni dirette e personali, per le quali permangono essenziali la reciproca prossimità fisica, la facilità di accesso ai centri di produzione della innovazione nei diversi campi, la disponibilità di personale tecnico scientifico e di consulenti qualificati, la centralità rispetto alle reti di flusso delle informazioni, delle idee, delle persone che ne sono portatrici. Si tratta di attività di tipica pertinenza urbana e metropolitana che tendono a divenire la componente fondamentale e più dinamica della base economica delle città maggiori.  

I mutamenti indotti dalla terza rivoluzione industriale tendono a ridefinire le gerarchie urbane, [2] nel senso che salgono nella gerarchia le città che più rapidamente convertono la propria base economica conquistando quote crescenti di funzioni direzionali e di innovazione; scendono quelle che perdono posti di lavoro industriali e non avviano una conversione funzionale. Tali mutamenti tendono anche ad accentuare il carattere sistemico della rete degli insediamenti attraverso una maggiore integrazione funzionale tra le sue diverse componenti; integrazione che non si svolge più secondo i modelli classici di tipo gravitazionale o gerarchico, ma secondo nuove forme di specializzazione, integrazione o dominanza.

Le trasformazioni in atto non riguardano solo l'arresto della crescita o i rapporti gerarchici tra le maggiori città ed aree urbane. Esse coinvolgono l'intero territorio, urbanizzato e non urbanizzato, anche ad una scala più minuta. All'interno delle grandi aree urbane si formano o si estendono le zone di degrado o di abbandono; luoghi, complessi edilizi e infrastrutture non sono più utilizzati per le attività per le quali erano state realizzate, e vengono dismessi o ristrutturati per nuove e diverse attività. Emergono nuove polarizzazioni funzionali, sociali, ambientali, in un quadro che tende spesso alla dicotomia ed alla segmentazione piuttosto che all'integrazione. Alla concentrazione e all'aumento delle densità residenziali si sostituisce la diffusione e la riduzione delle densità; ad una utilizzazione prevalentemente monofunzionale dei suoli urbani tipica dello “zoning” tradizionale - che assegnava un'area all'industria, una alla residenza, una al commercio e così via - si sostituisce una utilizzazione plurifunzionale in cui commercio, residenza, produzione, cultura, etc. possono coesistere; le zone urbane destinate ad impianti industriali si svuotano, e si pone il problema del riuso delle strutture fisiche; le tipologie residenziali intensive, a torre o in linea, diventano inaccettabili per una domanda abitativa che chiede nuove qualità, e sono sostituite da tipologie basse, più rade, a schiera o per poche unità; la accessibilità alle diverse zone della città, ed in particolare a quelle centrali, diviene un requisito indispensabile non solo dal punto di vista funzionale, ma anche per la qualità della vita.

Molti centri urbani minori esprimono una nuova vitalità e percorrono sentieri di sviluppo fino a qualche tempo fa non prevedibili; si configurano aree ad economia diffusa che attraggono nuovi residenti, ove le qualità ambientali, il livello dei servizi, la disponibilità di spazi residenziali e per il tempo libero offrono condizioni di vita competitive o superiori a quelle di città un tempo dominanti; ma si accentuano anche, in centri minori e in territori marginali rispetto alle reti di trasporto e di informazione, i fenomeni di invecchiamento demografico, di obsolescenza delle strutture fisiche e di degrado ambientale. E così via, l'elenco delle trasformazioni potrebbe continuare: ciò che importa sottolineare è che si tratta di processi complessi, i quali interagiscono con la realtà urbana e territoriale così come si è venuta configurando nel corso dei secoli, ed il cui risultato non è mai univocamente determinato, ma deriva piuttosto dalla continua interazione con le strutture preesistenti.

L'intero processo di pianifícazione territoriale in tutte le sue dimensioni, da quella più propriamente urbana o metropolitana a quella dei territori meno densamente insediati, è coinvolto e messo in discussione dalla nuova fase del progresso tecnico, e dai suoi effetti sul territorio. Questi impongono un profondo aggiornamento delle strategie, degli strumenti e delle procedure di pianificazione. Solo se nei prossimi anni si compirà effettivamente tale “profondo aggiornamento”, sarà possibile governare le nuove trasformazioni urbane e territoriali. Solo per questa via l’urbanistica potrà contribuire a ridare alle città della terza rivoluzione industriale la qualità e il ruolo che esse hanno avuto in altre epoche storiche.

 

  1. I PRINCIPALI FATTORI CHE ORIGINANO LA TRANSIZIONE  
 

I ricordati mutamenti nei processi di urbanizzazione e nelle dinamiche territoriali non possono essere interpretati né come episodici né come il risultato di cicli economici di breve periodo. Essi hanno a che fare con mutamenti strutturali profondi, con una fase nuova e diversa delle economie e delle società occidentali, che, non a caso, si è definita come terza rivoluzione industriale. Essi hanno perciò un carattere strategico e di lungo periodo.

Dalla ormai ampia letteratura che in questi ultimi anni ha interpretato tali mutamenti è possibile enucleare alcuni elementi costitutivi: elementi che definiscono il passaggio, la "transizione", dal modello territoriale industriale a quello attuale, o, secondo alcuni, "post-industriale".

I processi di urbanizzazione associabili alla prima e alla seconda rivoluzione industriale sinteticamente richiamati nel testo di S. Cafiero [3] erano, in definitiva, determinati dalla convenienza delle produzioni industriali di beni (manifatturiere) ad aumentare la dimensione degli impianti e delle quantità prodotte (economie di scala) e a localizzarsi le une in prossimità delle altre (economie di agglomerazione), dando luogo a.concentrazioni di forze di lavoro, richiamate dalla crescente domanda di lavoro, e di servizi destinati sia alla produzione che alla popolazione.

Il paradigma classico, introdotto già all'inizio del XX secolo da A. Weber [4] , è costruito per spiegare - attraverso l’analisi dei meccanismi di funzionamento e di reciproca integrazione delle economie di scala e di agglomerazione - il fenomeno in quei decenni inusitato e sconvolgente dell’immigrazione in città, della crescita urbana e metropolitana, della formazione delle conurbazioni attorno alle principali città e delle immense periferie industriali. In termini di economia dello spazio, il paradigma Weberiano spiega la concentrazione crescente in alcuni punti del territorio (le grandi città e le loro aree metropolitane per l'appunto) di industrie, popolazioni e servizi e, come altra faccia della stessa medaglia, la progressiva riduzione delle attività, prevalentemente agricole, e della popolazione nel resto del territorio.

Quali sono gli elementi strutturali che fanno ritenere oggi superati i fenomeni interpretati dal paradigma classico? In altri termini quali sono i fattori principali del mutamento nei processi di urbanizzazione e nella più generale organizzazione territoriale?

Qui di seguito vengono schematicamente descritti.

 

 

 

1.1. Dalla produzione di merci alla produzione di servizi  

 

E' noto come nel secondo dopoguerra, ed in particolare dalla fine degli anni ‘60 nelle economie occidentali tenda a diminuire drasticamente il ruolo dell'industria sia in termini di occupazione che, in misura minore, di prodotto. Negli Stati Uniti la percentuale delle forze di lavoro occupate nell'industria, che ascendeva a circa il 40% del totale nel dopoguerra, si è ridotta all’inizio degli anni ‘80 a meno del 30%, mentre l'occupazione nei servizi è passata da circa il 55% a poco meno del 70% [5] [1].

In Italia tra il 1970 e il 1985 il peso percentuale della occupazione industriale (v. tab. 1) si è ridotto di oltre 6 punti (dal 39% al 33%) mentre quello della occupazione nei servizi è aumentato di 14 punti (dal 42% al 56%): alcune previsioni fanno ascendere l'occupazione nei servizi del nostro paese, al 2000, a oltre il 60% del totale e quella industriale a meno del 30%.(La previsione si è confermata con qualche diversità. Secondo ISTAT nel 2000 gli occupati nei servizi sono il 63% del totale, quelli nell’industria il 32% e quelli in agricoltura il 5%).  

Si tratta, d'altro canto, di un fenomeno ormai ampiamente noto ed analizzato, le cui origini non importa qui descrivere in dettaglio: basti ricordare che la crescita dei “servizi” e il declino dell’industria manifatturiera nelle economie occidentali si fa in genere risalire alla risposta dei sistemi industriali alla "grande crisi" del 1929. Dopo quella crisi le maggiori imprese industriali si orientarono da un lato verso una diversificazione delle attività produttive che permettesse loro di superare le fasi basse del ciclo economico, e quindi verso l'assunzione di crescenti funzioni di direzione, organizzazione e controllo con un con seguente innalzamento della domanda di servizi, la produzione dei quali diveniva via via più economica all'esterno delle imprese (esternalizzazione); dall'altro si orientarono verso una crescente concentrazione finanziaria con conseguente internazionalizzazione delle attività di produzione e delle aree di mercato, cui avrebbe fatto seguito il decentramento, in aree periferiche dotate di materie prime e di forza di lavoro a basso costo (America Latina, Sud‑Est asiatico etc.), delle produzioni più “labour intensive” ed a più alto consumo di materie prime. In entrambi i casi l'effetto è stato quello di una riduzione delle produzioni manifatturiere tradizionali nei paesi di origine a vantaggio della produzione di servizi.

   

   

Quello che importa sottolineare dal nostro punto di vista è che, con la riduzione del peso dell’industria (in particolare di quella “labour intensive” e ad alto consumo di materie prime) nelle economie occidentali, la localizzazione degli impianti industriali non ha più un ruolo cruciale nel "disegnare" la città. Il grande impianto manifatturiero che definiva gli spazi e le funzioni della periferia metropolitana non è più centro di attrazione di nuove forze di lavoro; l'agglomerazione delle industrie, che, come si vedrà, non è più necessaria, non determina più la crescita urbana e la polarizzazione territoriale. Gìà oggi in Italia, nelle regioni centrosettentrionali, il numero di posti di lavoro industriali per abitante nelle province metropolitane è uguale a quello dei territori non metropolitani. In altri termini, nell'economia dei servizi" la localizzazione industriale non è più governata dalle economie di agglomerazione, la distribuzione degli impianti tende ad essere omogenea sul territorio e l'industria manifatturiera tradizionale non è più il settore “city forming” delle maggiori città.

Si moltiplicano invece il numero e la rilevanza dei casi di dismissioni di aree un tempo attrezzate ed usate per produzioni industriali e diviene dominante il tema urbanistico del “riuso” di tali aree ed attrezzature per nuove e diverse funzioni.

I casi dello smantellamento degli impianti FIAT Lingotto a Torino e Pirelli Bicocca a Milano e della progettazione di nuove utilizzazioni - prevalentemente terziarie e culturalì - per i suoli un tempo occupati dalla produzione manifatturiera sono solo due esempi di quanto sta avvenendo in molte altre città ed aree urbane italiane ed europee.

   

 

1.2. Dall'impresa mono-impianto e mono-localizzazione all'impresa multi-impianto e multi-localizzazione  

  I processi di diversificazione produttiva, di concentrazione finanziaria e di internazionalizzazione degli spazi produttivi e dei mercati cui si è fatto riferimento hanno dato luogo prima all'affermarsi delle grandi "Corporations" che dispongono di numerosi impianti e diversi tipi di prodotto, e poi, a partire dal secondo dopoguerra ed in particolare dalla metà degli anni ‘60, a intensi fenomeni di decentramento produttivo. I motivi del decentramento sono stati ampiamente analizzati, e converrà riportare il seguente passo di R.P. Camagni, in cui vengono sinteticamente descritti:

La moderna teoria dell'impresa indica come realistica ed efficiente una strategia di autonomizzazione di differenti operazioni o funzioni o produzioni, secondo modelli di decentramento funzionale o divisionale. Tale decentramento può cioè riguardare diverse funzioni (produzione, direzione, amministrazione, ricerca, magazzinaggio), diversi prodotti o diversi moduli di produzione dello stesso prodotto. Allorché il decentramento decisionale si sposa col decentramento localizzativo, possiamo avere una multilocalizzazione di tipo verticale nel primo caso e una multilocalizzazione orizzontale negli altri.

La base teorica di tale comportamento si trova nel diverso andamento delle curve dei costi medi di ciascuna fase o operazione elementare svolta dall'impresa, e nella legge generale che lega l'evoluzione della specializzazione produttiva con la dimensione del mercato.

Se le diverse funzioni X,Y,Z mostrano andamenti nei costi medi come indicato nella figura  è possibile a un certo livello di sviluppo scorporare la funzione soggetta a rendimenti crescenti (X) in una nuova unità locale (autonoma o controllata) che lavori anche per altre imprese o per altre divisioni della stessa impresa, usufruendo in questo modo di un costo più limitato e costante (linea tratteggiata). In questo caso la dimensione ottima delle fasi rimaste può essere mantenuta più limitata (punto b) con costi complessivi inferiori

Anche per le funzioni a costi crescenti e rendimenti decrescenti una strategia di autonomizzazione si impone: essa può essere realizzata attraverso la subfornitura a unità locali più piccole e autonome, o attraverso la multilocalizzazione di «moduli» o impianti di piccole dimensioni (ottimali da un punto di vista tecnico o economico) appartenenti alla stessa impresa.

Nel primo caso si tratterebbe di specializzazione e multilocalizzazione di fasi diverse (verticale); nel secondo caso di multilocalizzazione orizzontale.

Trattando più direttamente il secondo caso, allorché esistono contemporaneamente, nella determinazione dei costi. degli elementi tecnici (connessi alla scala della produzione) e dei motivi economici (connessi alla maggiore conflittualità di una forza lavoro concentrata in pochi grandi impianti. o al minor costo dei lavoro su mercati locali decentrati). possiamo affermare che il costo medio è funzione sia della quantità prodotta che dei numero di impianti con cui si produce:

 

CM=f(Q,n)

 

Per ogni livello di produzione esiste un numero ottimo di impianti con cui realizzare in modo modulare e decentrato la produ­zione complessiva dello stesso bene (17).

La dispersione territoriale sia di impianti similari, sia delle diverse fasi dei processo produttivo, dipenderà dalle necessità di interazione tra le diverse unità locali e quindi dai costi di trasporto, comunicazione e organizzazione su scala decentrata. dalla dimensione media di ciascuna unità locale relativamente alla dimensione dei mercato dei lavoro su cui insiste, e dalle caratteristiche stesse del mercato dei lavoro in termini di differenziali salariali, di produttività e di conflittualità fra le diverse aree territoriali. [6]

 

Inoltre, come ha osservato P. Costa:

 "Non appena più impianti fanno capo ad una impresa, per essa sorge la possibilità di scegliere tra lo sfruttare i legami di interdipendenza tra i propri impianti (anche non contigui) e i legami tra uno dei propri impianti ed altri ad esso contigui, ma non appartenenti all'impresa.

L'impresa può dunque scegliere tra sfruttare economie interne ed esterne di scala... ed è molto probabile che prevalga la prima alternativa.

Questo ha dei notevoli effetti sulla teoria dell'agglomerazione.

Se è vero che la grande impresa - o comunque ogni impresa a più impianti - tende a privilegiare i rapporti interni rispetto a quelli esterni, la convenienza dell'agglomerazione d'impianti appartenenti ad imprese diverse cade drasticamente [7] .  

Ora, sia il progresso delle reti e dei sistemi di trasporto sia la diffusione delle reti informatiche e di telecomunicazione hanno ridotto molto i costi che un'impresa deve affrontare per delocalizzare impianti di produzione. Ciò ha dato un forte impulso ai processi di decentramento. [8] .

Tutto ciò ha, dal nostro punto di vista, due conseguenze essenziali:

-           gli effetti del decentramento produttivo si sommano a quelli dell'emergere dell'economia dei servizi (punto 1.1) nel ridurre ulteriormente il ruolo dell'industria. nelle grandi città;

-           i territori periferici, sia a scala sub‑nazionale che sovra-nazionale, possono essere interessati, più che in passato da localizzazioni industriali, sempreché, naturalmente, siano inseríti nelle reti dì trasporto e comunicazione ed offrano condizioni ambientali e localizzative adeguate.

 

Connesso, ma non coincidente, con il fenomeno del decentramento produttivo è quello, più complesso, e che qui ci si limita a menzionare, del l'emergere - grosso modo nell'ultimo decennio - di una nuova vitalità nel le c.d. aree di piccola impresa" o ad “economia diffusa. Analizzato per la prima volta in Italia da A. Bagnasco [9] nel 1977, il modello di sviluppo e di organizzazione territoriale fondato sulla coesistenza ed integrazione di sistemi di piccole imprese specializzate e di tipo semi-artigianale con strutture territoriali definite da medi e piccoli centri, spesso di origine contadina, ha consentito di interpretare, entro un mercato continuamente in evoluzione che richiede sempre maggiore flessibilità e capacità di innovazione, le modalità con cui singole regioni o gruppi di regioni (il Veneto e l'Emilia anzitutto, ma anche in parte la Toscana e l'Umbria, l'Abruzzo, la Puglia) hanno risposto positivamente alla crisi degli anni ‘70.

Anche in questo caso si affermano sistemi territoriali diversi da quelli tipici della concentrazione urbana delle prime due rivoluzioni industriali, nei quali non è più la crescita quantitativa del singolo impianto o della singola città a creare convenienze economiche, bensì un più articolato sistema di specializzazione integrazione economico-territoriale.

E’ questa l’origine strutturale di quel fenomeno, assai diffuso in Europa e in Italia a partire grosso modo dalla fine degli anni ’70, che va sotto il nome di città diffusa, e di cui B. Secchi è stato uno dei più acuti studiosi

 

 

 

1.3. Arresto della crescita e conversione funzionale nelle aree urbane  

 

Che si consideri ogni insediamento, o porzione di territorio, come risultato della accumulazione storica di processi antropici di trasformazione, o che, ad una scala più ampia, si considerino ampie regioni come sistemi spaziali strutturati da insiemi interconnessi di centri urbani, il territorio non può mai essere considerato come ambito spaziale “indiffererente”, “tabula rasa” priva di preesistenze, vincoli, attività.

Sotto questo profilo se il sistema urbano di una regione, o una città, sono sospinti a trasformarsi in relazione al mutare delle condizioni economiche e produttive, è altresì vero che a loro volta le trasformazioni del sistema urbano, o della città, influiscono sull'economia e sull’attività produttiva. Una regione o una città saranno in grado di attrarre un'attività economica dinamica ed innovativa nella misura in cui le offriranno condizioni fisiche, funzionali e ambientali competitive per il suo esercizio. Dunque non solo la distribuzione delle città in una regione, la loro dimensione, i loro rapporti di integrazione, ma anche la composizione della loro base economica, le loro caratteristiche funzionali ed ambientali, la loro dotazione di infrastrutture e di servizi, rappresentano fattori primari di sviluppo o di regresso, dell'intera economia di una regione o paese.  

Ne discende che le modalità con cui le basi economiche, le caratteristiche funzionali ed ambientali, le dotazioni di infrastrutture e servizi delle città, ed in specie delle maggiori, hanno reagito alle trasformazioni economiche e produttive fin qui descritte ne rappresentano non solo un effetto, ma, a loro volta, producono effetti su di esse. Tra sistema delle città e sistema economico si instaura un rapporto biunivoco, del quale a noi interessa soprattutto l'aspetto fisico e spaziale.

Le trasformazioni economico-produttive richiamate ai punti 1.1 e 1.2 hanno dato luogo, grosso modo nel corso degli anni '70 e della prima metà degli anni ’80 ad un periodo di intensa “crisi urbana”. Schematizzando molto, e riferendoci, per il momento, alle grandi aree urbane:

 

-            Si è drasticamente ridotto il numero dei posti di lavoro nelle produzioni tradizionali, specie in quelle manifatturiere, ed in alcune attività di servizio (commerciali, si pensi ad alcune “città portuali”, o contabili-amministrative di routine etc., il cui esercizio è più conveniente decentrare).

 

-            Un peso ed un ruolo crescente in termini di posti di lavoro e di reddito è stato assunto dalle attività connesse: a funzioni direzionali e di controllo dei processi produttivi (gli headquarters delle grandi corporations, delle maggiori società finanziarie e commerciali, delle associazioni di categoria etc.); ai servizi specializzati alle imprese, alla finanza e al management, alla creazione e circolazione di messaggi e informazioni; alla cultura, alla ricerca e alle "scienze del corpo” all'industria del tempo libero. Si tratta di attività il cui esercizio risulta più conveniente in ambiente metropolitano per la numerosità dei contatti 'faccia a faccia" che esse richiedono, per la “nodalità” rispetto alle reti nazionali e sovranazionali di trasporto e comunicazione, per i vantaggi di “agglomerazione”, cui sono ancora sensibili molte produzioni di servizi specializzati ed innovativi. La sostituzione dalle nuove alle vecchie attività può essere sinteticamente indicata come "conversione funzionale".

 

-            Il bilancio tra posti di lavoro persi per chiusura o trasferimento delle attività tradizionali, e posti di lavoro generati dalle funzioni emergenti, è stato, in molte aree urbane, negativo. Ciò a dato luogo a fenomeni anche drammatici di “crisi urbana”, particolarmente vistosa per quelle città che erano fiorite grazie allo sviluppo di particolari settori produttivi (si pensi alle “città dell’auto”, a molte città portuali, alle città dell’acciaio ecc.) i cui impianti sono stati drasticamente ridimensionati dalla sostituzione tecnologica e dal trasferimento in altre aree, ove i costi dei fattori e i conflitti sono risultati inferiori. La riduzione della domanda di lavoro nelle grandi aree urbane spiega (assieme ad altri fattori quali la riduzione del tasso di natalità, i nuovi comportamenti sociali e culturali, le nuove domande "di qualità”, etc.) l'arresto della loro crescita demografica: arresto, o addirittura inversione, che si era già verificato da tempo nei distretti centrali, ma che ora si estende a vaste porzioni periferiche e alle aree nel loro complesso (vedi schema).

 

-            La "conversione funzionale" non è però un processo automatico né privo di conseguenze. Non è un processo automatico nel senso che non basta la crisi delle attività tradizionali perché esse vengano sostituite da funzioni innovative. Al contrario, l'obsolescenza e l'alto costo di rinnovo del capitale fisso sociale accumulato nel lungo periodo di crescita, la rigidità di molti impianti ed attrezzature realizzate in funzione di attività che oggi risulta più economico trasferire o sostituire (si pensi ai capannoni e stabilimenti manifatturieri e ai vuoti, o ai problemi di riuso, che essi pongono), l'inadeguatezza delle infrastrutture e dei servizi di trasporto e comunicazione, un insieme complesso di fattori fisico‑ambientali il cui degrado è stato aggravato, nel corso degli ultimi 10-15 anni, dalle crisi finanziarie e dai vincoli di spesa locali, concorrono a rendere più difficile la conversione funzionale, e problematica l'attrazione delle nuove funzioni. In altri termini è l'intera attrezzatura fisica e l'organizzazione spaziale della "metropoli" che entra in gioco, ed alla quale è oggi richiesto di offrire un "ambiente" idoneo all'esercizio delle attività emergenti.

 

-            Se la conversione funzionale non è un fatto per così dire "spontaneo", ma richiede strategie, risorse ed interventi “ad hoc”, essa provoca, d'altro canto, una riformulazione delle gerarchie urbane. Ha conseguenze rilevanti sullo sviluppo economico, sulle condizioni di reddito, sulle dinamiche sociali delle singole aree, e quindi sulle relazioni che fra di esse si instaurano. Salgono nella scala gerarchico funzionale le aree urbane che riescono a "conquistare" quote crescenti di attività direzionali innovative, di produzione di servizi avanzati alle imprese, di funzioni nodali; scendono, viceversa, quelle ove la quota di tali attività non aumenta o si riduce.

 

-            Diviene più intensa, e supera i confini nazionali, la competizione tra le maggiori aree urbane. Si parla di “ubanistica concorrenziale”: è difficile oggi immaginare che un'area urbana possa mantenere la sua posizione gerarchica senza procedere speditamente nel processo di conversione funzionale. Ciò non vuole dire che

questa rappresenti, di per sè, un obiettivo: è però una condizione necessaria, seppure non sufficiente, affinché siano perseguibili obiettivi di “sviluppo in assenza di crescita" e di riqualificazione urbana.

Il processo di “conversione funzionale”, sempre con riferimento alle grandi aree urbane, è stato efficacemente analizzato, fra gli altri, da A.J. Scott, del quale riportiamo, alcuni semplici schemi [10] .

 

 

 

 

 

 

 

 

       

La successione delle tre fasi, rappresentata nei tre ideogrammi, può essere confrontata con i tre periodi di sviluppo tecnico ed urbanizzazione considerati nel testo di S. Cafiero.

 

Interessa ora considerare la terza fase, quella attuale, ed indicare gli effetti delle trasformazioni nelle due parti dell'ideogramma: l'interno del cerchio può essere assunto come schematicamente rappresentativo della “città centrale” di una grande area urbana (o anche come core  di un più ampio sistema regionale), ed il suo esterno come rappresentativo delle periferie urbane o metropolitane, con i loro sub-centri (o anche come parte esterna della regione, o territorio inter-metropolitano, con i centri urbani minori).

 

All'interno della città centrale (o del core regionale): il declino delle attività tradizionali, manifatturiere o di ufficio, comporta come si è visto, una drastica riduzione dei posti di lavoro intermedi (impiegati e operai) definibili per il carattere esecutivo delle attività, il livello medio o medio-basso di istruzione richiesta, l'elevata garanzia di occupazione, il carattere formalizzato del mercato del lavoro.

D'altro canto l'emergere delle nuove funzioni, ed il coesistere, accanto ad esse, di un settore "labour intensive” destinato ai consumi locali, orienta la nuova domanda di lavoro verso i due poli estremi del ventaglio occupazionale: gli “indipendent primary jobs” (dirigenti, professionisti, etc.) da un lato, i “secondary jobs” dall'altro (lavoratori saltuari non garantiti, etc.). Caratterizzati i primi da attività di tipo tecnico-professionale, manageriale, comunque richiedenti un alto livello di conoscenza e capacità di soluzione di problemi, con redditi elevati e forti capacità di avanzamento professionale; i secondi viceversa, da attività spesso temporanee, esecutive e ripetitive, richiedenti scarsi livelli conoscitivi, con redditi bassi, senza possibilità di avanzamento professionale, con scarse garanzie di occupazione.

I due fenomeni danno luogo ad una sinergia nella trasformazione dei mercati del lavoro metropolitano verso quello che è stato definito un “modello dicotomico” nel quale tendono ad aumentare i livelli alti e bassi di occupazione, mentre si riducono quelli intermedi. Ciò ha naturalmente conseguenze rilevanti non solo sulla struttura socio-economica delle grandi aree urbane, ma anche sul loro assetto fisico-spaziale. E viceversa un assetto fisico-spaziale di tipo dicotomico tenderebbe a ripercuotersi sulle condizioni di vita e di lavoro nell'area.  

Segnali di una crescente dicotomia spaziale fisica nelle maggiori aree urbane emergono non solo dalla realtà statunitense [11] , ove assumono il connotato di un forte riaccentramento delle funzioni emergenti e dei ceti ad alto reddito, e di un crescente degrado delle aree semiperiferiche, ma anche da grandi città europee (inglesi ad esempio).

E’ possibile che nelle nostre grandi aree urbane tali effetti siano, per così dire, mitigati e ritardati sia dai diversi connotati storici dell'urbanizzazione sia dalla minore intensità relativa con cui si manifesta in molti casi la conversione funzionale, sia infine dalla circostanza che le risorse delle amministrazioni locali sono ancora in buona parte garantite, a differenza di quanto accade in altri paesi, indipendentemente dalle variazioni della base impositiva locale (la riduzione di quest'ultima non determina quindi effetti cumulativi di crisi e di arresto dei programmi di spesa pubblica). E' tuttavia molto probabile che, originate come sono da trasformazioni strutturali e di lungo periodo, le tendenze verso modelli dicotomici si affermino anche da noi. Esse sono comunque intrinseche ai processi di conversione funzionale.

Non solo: l'affermarsi di tendenze dicotomiche strutturali del tipo di quelle indicate potrebbe avere effetti particolarmente gravi nelle grandi città meridionali ove esse si sommerebbero ad altre, già consolidate e non meno devastanti dicotomie quali quelle riassumibili nei termini di città legale e città illegale o tra alcune zone urbane “privilegiate”, e vaste periferie (o anche centri storici) degradati.

Si è così di fronte a un duplice problema: da un lato occorre favorire la conversione funzionale verso le nuove funzioni urbane, pena il regresso e il declino della vitalità economica dell'area; dall'altro è necessario prevederne i probabili effetti negativi sul piano della vita sociale e delle strutture fisico-spaziali e promuovere strategie di riequilibrio e di integrazione urbana.  

Nelle periferie urbane/metropolitane ( o nel territorio inter-metropolitano): qui gli effetti indotti dalle trasformazioni metropolitane e dalle determinanti che le hanno originate appaiono più articolati e differenziati nelle singole realtà regionali, ma non meno significativi. E' però possibile individuare almeno due aspetti, significativi, di natura sufficientemente generale.

Il primo è costituito dal nuovo peso che assumono, nel territorio delle grandi periferie metropolitane ( o nel territorio inter-metropolitano) le reti di trasporto, energetiche e di comunicazione: la possibilità cioè di trasferire nello spazio in modo sempre più rapido e meno costoso quantità crescenti non solo di persone e mezzi ma anche di dati, informazioni, messaggi (le linee esterne al cerchio dell'ideogramma).

In questi spazi il territorio è, di norma, già percorso ed innervato da infrastrutture di trasporto, energetiche e di comunicazione, spesso realizzate nel corso delle due prime fasi di crescita urbana (1° e 2° rivoluzione industriale) che, se hanno soddisfatto le esigenze primarie di accessibilità, di rifornimento di energia e di comunicazione, sono oggi tuttavia insufficienti per il livello qualitativo del servizio offerto (scomodità, ritardi, affollamento e inaffidabilità per i trasporti; affollamento delle linee e lentezza per la trasmissione dati), o per i diversi e gravi inquinamenti prodotti (oltre a quello, ben noto, atmosferico, determinato dalle emissioni di gas e particolati da parte dei motori a scoppio, che non può che essere affrontato attraverso un miglioramento del modal split a favore dei trasporti di massa non inquinanti e l’introduzione di motori a diverso propellente, si pensi all’inquinamento elettromagnetico e visivo dei grandi elettrodotti, all’inquinamento acustico ecc.). Spesso quindi non si tratta tanto di prevedere nuovi grandi tracciati infrastrutturali di base (in alcuni casi tuttavia ancora necessari, soprattutto per le reti di trasporto metropolitano in sotterranea) quanto piuttosto di valutare in dettaglio le specifiche domande non soddisfatte, il modal split nel campo dei trasporti, i problemi di gestione, manutenzione e ottimizzazione delle infrastrutture, la loro efficienza anche sotto il profilo dell'esistenza, o meno, di efficace integrazione tra i diversi livelli gerarchici delle reti, gli interventi di “riambientazione” delle reti stradali, quelli di mitigazione degli impatti, ecc. La questione decisiva diviene dunque quella di applicare anche, talvolta soprattutto, alle reti delle periferie metropolitane, criteri di qualità del servizio offerto, di riduzione degli impatti, di migliore uso delle infrastrutture esistenti, di efficienza e di corretta manutenzione. Criteri che sono peraltro alla base dell’approccio della trasformazione qualitativa, che ormai sostituisce, nei diversi campi dell’azione urbanistica, quello della crescita quantitativa.  

Il secondo aspetto generale riguarda la tendenza alla formazione di sub-poli e di centralità nei territori periferici o inter-metropolitani, nonché il tipo di attività e di servizi che tendono a localizzarsi in tali centri intermedi o minori (i punti esterni nell'ideogramma).

Numerose ricerche convergono nel rilevare come le modalità dello sviluppo di molti centri intermedi o minori, nelle estese periferi metropolitane o in più ampi territori intermetropolitani, ovvero facenti parte di "aree ad economia diffusa”, siano essenzialmente legate alle specializzazioni produttive locali, alle identità che traggono radici nelle storie sociali, culturali e produttive locali. Questi “percorsi di sviluppo” danno luogo anche alla crescita di servizi non banali direttamente funzionali alle specializzazioni produttive locali.

In altri termini la distribuzione delle attività entro il sistema urbano nel suo insieme (aree metropolitane, centri intermedi e minori etc.) non avverrebbe secondo il classico modello gerarchico delle località centrali, ma piuttosto lungo una struttura reticolare continua e interdipendente, anche se non spazialmente omogenea. “... Prove in corso per le regioni a sviluppo 'maturo' rivelano che molti centri dei livelli gerarchici inferiori e intermedi presentano una certa quota di servizi specializzati che secondo il modello delle località centrali dovrebbero aversi solo in livelli gerarchici superiori.. L'ipotesi è quella di un modello alternativo di specializzazione funzionale non gerarchica dei singoli centri (o reti locali), entro sistemi territoriali più vasti, corrispondenti a quelli della deconcentrazione industriale [12] .

Non diversamente nei centri che si vengono formando all’interno delle periferie metropolitane, anche per l’impossibilità del centro storico di rispondere alla crescente domanda  metropolitana di luoghi complessi ove coesistano molteplicità di spazi e di funzioni, accanto a funzioni produttive delocalizzate dalla città centrale compaiono spesso servizi di rango elevato che conferiscono anche forme nuove di identità a sezioni prima anonime di periferia.

In altri termini anche la parte dell’ideogramma esterna alla città centrale non va letta come meccanico processo di delocalizzazione, ma come più complessa trasformazione delle funzioni e degli spazi periferici che, certamente, da quella delocalizzazione prende le mosse.

 

   
 
 

[1] Da D. Cecchini (a cura di), “Uso e gestione del territorio nelle competenze degli enti locali – La pianificazione territoriale e urbanistica: problemi ed esperienze recenti” IAROS (Istituto di Addestramento e Ricerche per l’Organizzazione dei Sistemi), 1986.

[2] Le l'innovazioni', dell'era del "computer" sono troppo note perché si debba qui ricordarle. Sarà sufficiente porre in evidenza, schematicamente, le principali modalità con cui le nuove tecnologie hanno interagito, e continueranno ad interagire nel prossimo periodo, con le trasformazioni strutturali:

-               L'introduzione dei robots e delle macchine a controllo numerico nella produzione di merci ha fortemente ridotto l'impiego di lavoro operaio per unità di produzione (punti 1.1 e 1.2).

-              L'applicazione delle tecniche informatiche alla programmazione e gestione industriale ha permesso di ridurre la dimensione ed aumentare il numero degli impianti (v. punto 1.2) ed ha accresciuto fortemente la flessibilità produttiva.

-             Le tecnologie elettroniche e la diffusione delle reti informatiche hanno reso immensamente più agevole l'esercizio delle funzioni di direzione e controllo a distanza, permettendo di accelerare i processi di decentra mento, favorendo la “concentrazione diffusa” di sedi direzionali nelle città centrali (punto 1.3).

-             Attraverso la loro applicazione al settore dei trasporti ed alla movimentazione delle merci (si pensi al sistema “containers”, ai centri intermodali etc.), le nuove tecnologie hanno ridotto il costo per unità trasportata, aumentato le percorrenze e la capillarità dei collegamenti: ciò ha reso più convenienti i processi di multilocalizzazione e decentramento produttivo (punto 1.3) 

In generale, secondo processi sia di natura sia "macro" che "micro" le nuove tecnologie hanno contribuito potentemente a modificare i comportamenti delle imprese e delle persone, sostituendo alla “prossimità fisica” la “prossimità elettronica”, con rilevanti effetti diffusivi. Se ciò non implica necessariamente un processo di riequilibrio economico‑territoriale (molte ricerche indicano come le nuove tecnologie possono avere nel medio periodo effetti polarizzanti nel senso di accrescere produttività, redditi e consumi nelle aree ove essi erano già alti, deprimendoli in termini relativi nelle aree ove erano inferiori), implica sicuramente, dal punto di vista territoriale, l’affermarsi di modelli più diffusi e decentrati rispetto al passato.

[3] V. S. Cafiero “Il ruolo delle città per lo sviluppo”.

[4] V. la Scheda A

[5] [1] Si ricordi che le statistiche ufficiali negli USA includono fra gli occupati nei servizi anche quelli addetti a tale attività all'interno dell'industria, cosa che non avviene, ad esempio, in Italia, ove gli l'impiegati" della FIAT, sempre ad esempio, sono classificati fra gli addetti industriali.

[6] Da R.P. Camagni, “Esperienze di localizzazione industriale in Italia e all’estero”, in Economia e politica industriale n°37, 1983.

[7]   Da P.Costa, E. Canestrelli, “Agglomerazione urbana, localizzazione industriale e Mezzogiorno”, SVIMEZ, Giuffrè ed., Milano 1983.

[8] ]  Le modalità del decentramento (livello tecnologico, tipi di produzione, etc. degli impianti che si decentrano) sono state analizzate attraverso la teoria del “Filtering down” (Thompson, Berry).

[9]  V.A. Bagnasco, “Tre Italie, la problematica territoriale dello sviluppo italiano”, Il Mulino, Bologna, 1977.

[10] V. A.J. Scott, “Locational Patterns and Dynamics of Industrial Activity  in The Modern Metropolis”, in Urban Studies, vol. 19, n° 2, 1982.

[11] V. D. Cecchini, “New York, la conversione funzionale”, in Urbanistica, n. 80

[12]   G Dematteis, “Controurbanizzazione e deconcentrazione”, in “Piccola città e piccola impresa”, R. Innocenti (a cura di), Milano, 1985.

 

 

Corso di URBANISTICA
Prof. Domenico Cecchini

Università degli studi di Roma
"La Sapienza"
Facoltà di Ingegneria